Emilio Salvatore Leo, architetto e designer, non è un maestro d’arte in senso classico, ma è un vero maestro della visione laterale, una prospettiva che gli ha permesso di reinventare l’attività dello storico lanificio di famiglia, trasformandolo in un hub creativo a vocazione internazionale, aperto a una varietà di contaminazioni e narrazioni. Sperimentando sugli asset immateriali – storia, brand, relazioni – ha riconnesso la più antica fabbrica tessile calabrese non solo con il territorio in cui era nata nel 1873, ma anche con il resto del mondo. L’ha fatto nutrendo il suo progetto di una chiara visione politica, prima che imprenditoriale: il nostro territorio, le nostre persone e la nostra arte sono l’essenza stessa del Made in Italy.

Ci racconta la storia che ha portato il Lanificio Leo a rinascere?

La lunga storia del lanificio era legata a una società rurale che negli anni Settanta e Ottanta del Novecento era ormai scomparsa, o almeno troppo cambiata perché l’attività potesse proseguire in modo lineare. Rispetto alle origini, erano diverse persino le razze delle pecore allevate nella zona. Di fatto, la mia famiglia si trovò con una scatola vuota, dotata di scarso potere produttivo: una piccola cattedrale laica, in cui rimanevano le vecchie macchine tenute in vita da mio padre che era l’ultimo a conoscere il loro funzionamento. E io, figlio unico nato da un genitore ultracinquantenne, sembravo essere l’ultimo destinato a rilanciare l’attività, in una famiglia in cui mio padre era il secondo di otto figli e quindi intorno a me era pieno di zii e cugini, sulla carta più idonei di me a occuparsi del lanificio.

Il territorio è sempre stato al centro delle nostre sperimentazioni. Non ho mai voluto usarlo in modo opportunistico, e ho anzi sempre mantenuto con il territorio una relazione diretta, vivendo in questa periferia della periferia...

La lunga storia del lanificio era legata a una società rurale che negli anni Settanta e Ottanta del Novecento era ormai scomparsa, o almeno troppo cambiata perché l’attività potesse proseguire in modo lineare.

Mi iscrissi a ingegneria, per poi passare ad architettura, e cominciai ad acquisire competenze sul territorio e sulla contemporaneità, sviluppando una consapevolezza: il rilancio non avrebbe mai potuto basarsi su una prospettiva rigidamente economica, era necessario un capovolgimento culturale. Se non si poteva riportare il lanificio nel mondo, bisognava portare il mondo al lanificio. Con la follia di quegli anni giovanili, alla fine degli anni Novanta organizzai Dinamismi Museali, un festival sul pensiero contemporaneo, fatto di musica elettronica, arti performative e design del limite. Per dieci anni abbiamo portato al lanificio nel cuore della Sila, persone e punti di vista internazionali - un atteggiamento che non ho mai più smesso di avere - chiedendo ai designer di sperimentare, interpretando il lavoro dei vecchi macchinari e del loro nuovo potere produttivo. 

Più che follia giovanile, la sua sembra una visione contemporanea, quanto mai lucida e coraggiosa.

Mi fa sorridere il pensiero che mio padre mi abbia dato Salvatore come secondo nome. Forse tutto  è accaduto secondo una sua precisa sceneggiatura. All’inizio la sperimentazione pura è stata il nostro modo di non avere deroghe. Forse nessun business plan avrebbe potuto portarci dove siamo oggi. La visione non è stata solo quella di far leva su strumenti culturali piuttosto che economici, ma anche di prendere una direzione non nostalgica. Fin dall’inizio, ho rifiutato l’idea di musealizzare il lanificio, di mettere le vecchie macchine in mostra e di affidare a un custode le chiavi di ottone del museo. 

Cos’è oggi il Lanificio Leo?

È un laboratorio spinto sulla contemporaneità, un hub creativo aperto a contributi e punti di vista esterni, anche radicalmente opposti. Il lanificio opera come un editore, che dà voce ai singoli designer per far capire che il tessile è un dominio del design italiano, una superficie di espressione  in cui c’è ancora molto da indagare.  

In che cosa si esprime l’anima artigiana? 

Nell’alta qualità del prodotto, che tende a quella del pezzo unico, nella scelta di farlo a regola d’arte. Non mi interessa il lusso - spesso legato a un concetto di status che mi è estraneo -, mi interessa piuttosto la durata della vita del pezzo, la sostenibilità della sua produzione, la sua accessibilità e il suo messaggio. Anche la produzione con le macchine può essere vissuta con spirito artigianale: per esempio abbiamo sperimentato molto sulle imperfezioni che derivano dall’uso di macchine storiche, imperfette per la loro usura, per valorizzarne la bellezza e l’unicità. 

Detto questo, sono contro l’ortodossia, il nostro approccio è sempre stato quello dell’ibridazione, dell’interconnessione tra manualità e tecnologia, che per realtà come la nostra può essere la riserva di competitività che fa la differenza.

Come utilizzate la comunicazione? 

Le aziende storiche di solito hanno una comunicazione molto rassicurante, basata sull’heritage e sulla tradizione. Nel nostro caso la comunicazione segue i tanti progetti realizzati, e sicuramente potrebbe essere utilizzata in modo più strategico, abbiamo ancora strada da fare su questo fronte. Uno dei  cambiamenti già effettuati ha però riguardato il logo aziendale: dal leone, chiaro simbolo di forza legato al nostro cognome, siamo passati ad un agnellino, poi trasformato in una pecora stilizzata. Anche qui, una scelta più contemporanea, non priva di ironia.

Qual è il ruolo del territorio e come si esprime nelle creazioni del lanificio?

Il territorio è sempre stato al centro delle nostre sperimentazioni. Non ho mai voluto usarlo in modo opportunistico, e ho anzi sempre mantenuto con il territorio una relazione diretta, vivendo in questa periferia della periferia, anziché a Milano, dove sarebbe molto più facile intessere relazioni. C’è ancora molto da fare a livello di produzione, per radicare competenze stabili che servono anche a spersonalizzare la storia del Lanificio dalla mia: non sono un artigiano, che quando lascia porta via con sé i segreti del mestiere. La mia Calabria e il Meridione sono al centro di sperimentazioni anche a livello di contenuto, spesso con uno sguardo ironico, totalmente contemporaneo, come la serie di oggetti Tipicoatipico, decorati mediante xilografia a ruggine realizzata a mano. In fondo, il territorio, le persone e la nostra arte sono l’essenza stessa del Made in Italy. 

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