Stefano Nicolao nasce a Venezia nel 1954. Dopo il liceo artistico abbraccia la carriera di attore, formandosi presso il Teatro “L’Avogaria” di Venezia, diretto da Giovanni Poli. Contemporaneamente inizia a fare l’assistente di sartoria teatrale, cinematografica e televisiva. Negli anni ‘80 costituisce la “Nicolao Atelier”, per impegnarsi nello studio filologico di costumi storici, soprattutto veneziani, e dei loro accessori.

Ci racconti la sua storia. Qual è la sua formazione?

Nel 1971, mentre stavo terminando gli studi al liceo artistico, ebbi la possibilità di entrare alla scuola di Giovanni Poli del teatro L’Avogaria di Venezia. Lì cominciò la mia formazione teatrale che proseguì da professionista recitando in varie compagnie. L’ amore per il teatro e la preparazione artistica mi attiravano dietro le quinte per assistere alla preparazione di scene e costumi. Così nel 1977 decisi che il costume sarebbe stato il mio lavoro e divenni direttore di sartoria al Teatro Stabile Friuli Venezia Giulia .

Nel 1980 il costumista Enrico Sabbatini mi chiamò per seguirlo come assistente nel film per la TV “Marco Polo”, per il quale curai scene e costumi della parte tibetana di passaggio dalla Persia alla Cina sulle montagne dell'Himalaya.

Dico sempre ai ragazzi che oltre alla immancabile passione ci si deve avvicinare con umiltà e dedizione per assorbire e rubare con l'occhio tutto quello che passa loro davanti

Nel mio mestiere sono importanti lo studio e la ricerca, soprattutto per il costume storico, che ha tagli e confezioni completamente diversi dalla sartoria moderna

Come nasce il suo atelier?

Nel 1981, con la rinascita del Carnevale a Venezia, decisi che dovevo creare un punto di riferimento in città per il costume teatrale, di scena, dello spettacolo. Avendo buoni rapporti con la RAI, con la Municipalità e il Teatro La Fenice, ebbi la possibilità di stabilirmi nel cuore di Venezia e nacque così l'Atelier Nicolao, che ebbe subito sviluppo divenendo il fornitore ufficiale veneziano per i costumi di scena.

Quando ha capito che avrebbe dedicato la sua vita all’artigianato e alla produzione di costumi per lo spettacolo e per il Carnevale?

La professione dell'attore non mi dava le stesse emozioni che sentivo quando avevo a che fare con i costumi, con le materie con i colori, i tessuti, l’ago e il filo. Dietro le quinte veniva fuori l'anima artistica, il cuore pulsante della mia creatività. Nonostante avessi ottime critiche e lavorassi in compagnie importanti o nel cinema, l'attrazione per il backstage era più forte. Realizzare costumi è diventata la mia passione, la mia vita, la mia professione.

Per confezionare abiti così rispondenti all’originale ci vuole molta ricerca. Come avviene e come la coniuga alla progettazione e realizzazione dell’abito?

Certamente non si improvvisa nulla: questo vale per tutti i mestieri. Nel mio sono importanti lo studio e la ricerca, soprattutto per il costume storico, che ha tagli e confezioni completamente diversi dalla sartoria moderna. Possiedo una collezione di abiti antichi originali che vanno dal secondo '700 agli anni Sessanta del '900, che diventano studio e verifica della sartoria antica. Nei rifacimenti che realizziamo c'è questa conoscenza che viene applicata per ottenere una credibilità del capo, che diventa spesso simile all'originale; a volte si interviene con un trattamento di invecchiamento per dare una patina di "vero" e questo soprattutto per i costumi che realizziamo per i film.

Cosa deve avere un abito per essere autentico?

L'abito autentico (antico) ci mostra la via da seguire per rendere il nostro più rispondente all’originale possibile. Come prodotto artigianale anche queste riproduzioni diventano opere autentiche, e molto spesso sono uniche. Quello che esce dal mio Atelier è un capo che acquista un po’ del mio cuore perché vi trasferisco, oltre alla sapienza nel realizzarlo l'amore per questo mestiere, una simbiosi tra materia e sentimento che mi arricchisce ogni giorno di più.

La sua è una produzione legata molto alla tradizione. Ci sono capi più contemporanei o innovativi? Quali?

Ho avuto modo di realizzare abiti contemporanei per molte opere liriche, o comunque con una stilizzazione che renda un oggi senza tempo: così si fondono tecniche antiche con la sartoria moderna trovando un compromesso di pulizia stilistica. Nel film “Farinelli”, per esempio, il regista aveva pensato il cantante come una pop star di oggi che lancia una moda. L’azione si svolgeva nel 1750 e si pensò di vestire Stefano Dionisi, che interpretava il protagonista, con costumi e accessori che appartengono a un ventennio successivo, mescolando con difficile equilibrio il 1750 con il 1765. Come se lui fosse già avanti precorrendo le mode.

Qual è l’abito più particolare che ha realizzato? E quello che ha rappresentato maggiormente una sfida per lei?

Alessandro Mendini e Anna Gili, 2 bravissimi designer, mi chiesero di realizzare un progetto originalissimo: "Abito Sonoro", concepito partendo da un origami. La particolarità era che doveva seguire le regole di questa tradizione giapponese e quindi partire da una forma geometrica, essere fatto di piegature, ma non doveva essere tagliato e cucito, e doveva indossarlo una ballerina che lo avrebbe animato. Trovare il tessuto adatto fu un’ impresa, prove su prove per essere certi che si comportasse come un origami. L'altro problema era quello di far stare in forma le piegature, che componevano una grande coda perché l’altezza di questo abito-scultura è di oltre un metro. Preparai una struttura di tubini di alluminio collegati tra loro con degli snodi che feci al tornio per realizzare uno scheletro da nascondere all'interno dell'abito. Con altri accorgimenti di elastico per far rientrare la coda, l'opera fu finita, riuscendo a mantenere tutte le piegature dell’abito, senza perderne la forma di farfalla-dragone. Un successo: venne pubblicato sulle maggiori testate di design, portato a Pitti ed esposto in Triennale.

Quanto influisce il suo territorio nella produzione?

Venezia è unica ed è l'unica città che mi ispira per le mie opere, oltre ad essere la mia città natale. I colori, le atmosfere, la quiete, la sua storia, mi infondono costantemente il desiderio di lavorare sui costumi. I rapporti con i grandi teatri veneti La Fenice, L'Arena di Verona, il Teatro Stabile, e quelli con il turismo privato e il Carnevale mi legano al territorio ogni giorno di più.

C’è un momento che ricorda con particolare emozione?

Sì, ricordo ancora l’emozione che abbi quando, dopo aver fatto a New York un mio spettacolo intitolato "Riflessi Veneziani" con i Maestri Calzaturieri della Riviera del Brenta, e la mostra "Mestieri della Moda", il Direttore del Metropolitan Museum of New York Costume Institute mi chiese di donare un mio abito intitolato "Riflessi Veneziani" al Museo e farlo quindi entrare nella loro preziosa collezione. L'orgoglio e l'onore furono grandissimi anche se non sarebbe stato l'unico museo ad ospitare le mie opere: ma questo, legato allo spettacolo e pensato apposta per New York, mi rese orgoglioso e fiero del privilegio.

Nel suo atelier molti giovani sono passati a imparare il mestiere. Cosa vuole dire ai ragazzi che vogliono avvicinarsi al mondo dell’alta sartoria e, in particolare, quella teatrale e di scena?

Ospito nel mio Atelier moltissimi giovani che frequentano scuole di moda e costume, e io stesso insegno Fashion Design e Taglio Storico all'Accademia di Belle Arti di Venezia. Dico sempre ai ragazzi che oltre alla immancabile passione ci si deve avvicinare con umiltà e dedizione per assorbire e rubare con l'occhio tutto quello che passa loro davanti, senza trascurare nulla perché un giorno tornerà utile tutto. La manualità arriva con l'allenamento con l'esercizio e ascoltando gli insegnamenti, ma ci deve essere un fuoco che arde nell'anima che non si può insegnare e nessuno può imparare se non lo sente. Questo mestiere si fa prima di tutto con il cuore.